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A.B. 30 settembre 2016
Commissione Moby Prince: «obiettivo comune è la verità»
«La Commissione d´inchiesta sta lavorando bene», dichiara il senatore Luciano Uras, vicepresidente commissione d’inchiesta senatoriale sul disastro della Moby Prince


OLBIA - «La Commissione d’inchiesta Moby Prince sta lavorando bene. E’ presieduta in modo capace dal senatore Lai. E tutti i commissari sono impegnati a raggiungere gli obiettivi di verità posti dalla legge». Lo ha detto il senatore Luciano Uras, vicepresidente commissione d’inchiesta senatoriale sul disastro della Moby Prince, in occasione della presentazione al Roma del film/documento Rai di Paolo Mastino. «Sono passati nove mesi dall’istituzione e - prosegue il Uras - se anche non abbiamo ancora tutte le certezze sulla cause del disastro della Moby Prince e sulle responsabilità nella gestione dei soccorsi, abbiamo acquisito molti elementi di conoscenza e, per quanto mi riguarda, ho maturato anche alcune convinzioni. Abbiamo analizzato centinaia di documenti, files audio e video, fotografie, consegnate spontaneamente nel corso delle audizioni o acquisite dagli uffici presso i quali erano stati conservati. Documenti importanti e spesso tecnicamente rivelatori, oltre che elaborazioni e testi della cronaca delle tragiche ore del disastro e decine di testimonianze di marittimi, operatori e singoli cittadini che in quelle stesse ore hanno assistito direttamente agli eventi. In questo senso ho maturato convinzioni, e non sono il solo, che hanno fondamento oggettivo».

«In particolare, penso che le risultanze provenienti dall'attività di indagine condotta negli scorsi anni, a vario titolo, da autorità diverse, giudiziarie e non, ci hanno raccontato una storia che non convince. La commissione di inchiesta nasce proprio per cercare una verità che non è stata rivelata dai procedimenti giudiziari. Anzi quella che ci è stata consegnata dai processi, al contrario, appare come una “non verità”. Non è certo al comandante Chessa che possa essere addebitata la tragedia, al contrario è ormai chiaro che al comando del traghetto Moby Prince vi era una persona dalla comprovata e indiscussa professionalità ed esperienza, con un’ottima conoscenza del mezzo condotto e delle potenziali insidie del tragitto da percorrere, capace di guidare il proprio equipaggio secondo le più rigorose regole della buona navigazione e a motivarlo sino al sacrificio estremo pur di salvaguardare la vita dei passeggeri. Il comandante Chessa e gli uomini dell’equipaggio sono eroi e martiri di una vicenda che ha colpiti innocenti. La nebbia – sottolinea il senatore - è l'elemento più nebbioso dei racconti di alcuni testimoni “non-testimoni”, nel senso che non erano presenti sul luogo del disastro quando questo è accaduto. L'unico banco nebbioso presente in questa vicenda è quello che ha coperto per anni la verità, attraverso la opacità di certe testimonianze, rese sin dalle prime ore dopo il disastro agli inquirenti e ripetute, all'occorrenza, dinnanzi agli organi di informazione, e da taluno, ancora oggi, davanti alla Commissione».

«Un dato che emerge in modo lampante dalla maggior parte delle audizioni, è che la sera del 10 aprile 1991 nella rada di Livorno la visibilità fosse buona e soffiasse una leggera brezza da sud. Il fenomeno nebbioso decritto da alcuni e smentito da tanti, che, lo ricordiamo, fu alla base del castello di accuse indirizzate contro l'operato dell'equipaggio del traghetto, pare, per origini, forma e caratteristiche non essersi mai manifestato prima nella rada del porto di Livorno. E neanche dopo. E' significativo, a questo proposito, che a negare la presenza della nebbia siano soprattutto coloro i quali (testimoni diretti dei fatti) appaiono essere maggiormente “liberi” di esprimere la propria opinione, perché svincolati da ogni tipo di “influenza” esterna, e da ogni timore di vedersi attribuire responsabilità. Persone di mare, non semplici passanti. Il capitolo dei soccorsi – insiste Luciano Uras - appare tra i più dolorosi e sconcertanti. I soccorsi sono stati prestati senza la dovuta perizia, con una diretta responsabilità di chi esercitava il comando, per titolo, sia per parte della Capitaneria del Porto, sia per parte del Comando dei Vigili del Fuoco. Marina e pompieri, istituzioni che meritano ringraziamenti e rispetto di noi tutti, ma che in quella circostanza non hanno dimostrato le grandi capacità di cui certamente sono in possesso. Anche per loro dobbiamo scoprite tutta la verità».

«Appare infatti chiarissimo che i soccorsi siano stati condotti con preoccupante pressapochismo, se non con negligenza. Sappiamo anche che era nella potestà del comandante del Porto chiedere e ottenere l’intervento della Marina Militare e di altre forze istituzionali che avrebbero forse potuto dare un supporto all'attività dei mezzi presenti sul luogo del disastro e che non risulta siano state neppure allertate, ne informate, se non con enorme ritardo, su quanto stava accadendo. Non è stato richiesto l'intervento di mezzi aerei o navali aggiuntivi, magari militari e quindi per destinazione attrezzati per interventi di salvataggio. L'incendio che ha colpito il traghetto non è stato contrastato subito e neppure successivamente con la necessaria efficacia. Non vogliamo pensare che le 140 vittime non siano state nella testa e nel cuore di tutti coloro che attivandosi avrebbero potuto salvarle. Oggi ho incontrato una vedova della Moby Prince. Si tratta della moglie di un giovane professionista sardo ed ora, travolta dalla disgrazia, si trova anche in pesanti difficoltà di vita: disoccupata e con un figlio a carico, che ancora soffre le conseguenze dell’assenza del padre. Abbiamo il dovere di raggiungere l'obiettivo della verità e - ha concluso Uras - di occuparci dei familiari sopravvissuti, perché quella vicenda riguarda lo Stato».
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